In queste settimane di appassionate letture del Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, mi sono reso conto, per la prima volta, della grande abilità narrativa di questo scrittore. Non posso in effetti esimermi dal pensare che, quanto a precisione narrativa, Giorgio Bassani meriti indiscutibilmente di abitare il pantheon della letteratura italiana del XX secolo.
Se la letteratura di Bassani può essere letta da infiniti punti di vista, evidenziando innumerevoli tematiche e criticità storiche, ciò che più mi preme in questo momento è di metterne in rilievo la poetica della descrizione. Come si legge dal titolo, parlerei in realtà di una vera e propria antologia della descrizione, tante sono le maniere di descrivere e raccontare i particolari nei suoi romanzi.
La città di Ferrara è ovviamente il centro di gravità della poetica descrittiva di Bassani. Più in particolare, vorrei rendere conto di alcuni tratti di questa facoltà innata di materializzare immagini, al tempo stesso precise e sfumate, all'interno di quello che è il romanzo certamente più conosciuto dello scrittore ferrarese : Il Giardino dei Finzi-Contini.
Bassani non riuscirà ad entrare al di là delle mura di cinta del Barchetto del Duca (così viene definito lo splendido giardino che si cela nella proprietà dei Finzi-Contini) prima del 1938, all'epoca della promulgazione delle leggi razziali italiane. Uno dei momenti più alti della descrizione del Barchetto del Duca si trova alla pagina 339 del Romanzo di Ferrara (Ed. Feltrinelli), quinto capitolo della parte seconda del Giardino dei Finzi-Contini. Micòl convince Giorgio a visitare il giardino, e farà lui da guida in questa appassionata avventura descrittiva :
- "Ecco là i miei sette vecchioni", poteva dire. "Guarda che barbe venerande hanno!"
Sul serio - insisteva - : non parevano anche a me sette eremiti della Tebaide, asciugati dal sole e dai digiuni? Quanta eleganza, quanta santità in quei loro tronchi bruni, secchi, curvi, scagliosi! Assomigliavano ad altrettanti San Giovanni Battista, veramente, nutriti di sole locuste. - (p. 339)
In questo breve passaggio, dove Bassani descrive con la voce di Micòl le sette Washingtoniae graciles, o palme del deserto, presenti nel giardino, lo scrittore ferrarese sprigiona tutta la forza poetica del proprio racconto, accostando l'immagine delle piante alle immagini sacre della tradizione biblica. In questi due paragrafi, la descrizione è caratterizzata da certi espedienti retorici (prosopopea, similitudine, allegoria) che portano ad una certa sinuosità descrittiva, forse un po' artificiosa ma sempre intelligibile, quasi esplicativa.
In altri passaggi, Bassani cerca il contatto con il sacro dell'immagine attraverso una descrizione allo stesso tempo più semplice (con meno artifici retorici), precisa e indefinita. Ne è un esempio la descrizione che Micòl fa del giardino visto dalla finestra di camera, e più in particolare degli effetti dell'inverno e della nebbia :
- Ma presto o tardi la pioggia sarebbe finita : e allora la nebbia, di mattina, trafitta dai deboli raggi del sole, si sarebbe trasformata in un che di prezioso, di delicatamente opalescente, dai riflessi in tutto simili nel loro cangiare a quelli dei "làttimi" di cui aveva piena la stanza. - (p. 352)
Parlando dell'immagine della nebbia cadente sul Barchetto del Duca, Bassani ci arricchisce di una descrizione che porta un'aurea di sacralità, ma questa volta senza espliciti riferimenti all'antichità biblica. Aggiungerei, che questo effetto mistico è reso dall'impiego dei termini "trafitto", "prezioso", "trasformata", "opalescente", "riflessi". Da un punto di vista semantico, Bassani passa da un termine forte, duro e concreto come "trafitto", a parole inconsistenti, vaghe, velate di significato, le quali si accostano magistralmente alla parola "nebbia" (che resta concreta, sensuale in qualche modo).
Si potrebbero enucleare molti altri esempi e modi di descrizione nelle brevi pagine che caratterizzano l'ingresso nel giardino. Questo ci porterebbe però a uscire dalla logica minimalista di un post da blog. La grande maestria nella descrizione fa del Romanzo di Ferrara un pozzo senza fine di immagini, di tecniche narrative e di espedienti retorici. Ritornerò a più riprese su quella che ho definito l'Antologia della descrizione di Bassani, in quanto non si può non rendere conto della precisione della descrizione dei personaggi umani, animali di questo scrittore, e soprattutto della descrizione dello spazio urbano e architettonico di Ferrara, che resta forse il miglior esempio della tecnica narrativa bassaniana.
Giorgio De Chirico, Piazza d'Italia, olio su tela
Benvenuti sul blog Phoesia
Sono lieto di condividere questo spazio personale con amici, conoscenti e lettori che maldestramente sono entrati in questa pagina. Sin dal 23 gennaio 2011, Phoesia offre riflessioni personali su molteplici temi quali poesia, letteratura, filosofia, arti plastiche, cinema, teatro e tanto altro ancora. Nonostante ciò, Phoesia resta uno spazio aperto alle riflessioni di chiunque abbia voglia di scrivere, in modo "impegnato", su queste tematiche. Un grande benvenuto a tutti!
29/10/14
10/10/14
BRUCIA IL MARE (titolo originale : BRÛLE LA MER)
Docufilm realizzato
da Maki Berchache e Nathalie Nambot. Produzione : Les Films du Bilboquet, Francia,
2014 (16 mm/8 mm, colore, pellicola classica. Durata : 75 min.)
È nella grande sala
del Cinema d’Arte e d’Essai L’Étoile,
nella cittadina di La Courneuve
(Parigi), che viene proiettata , il 4 ottobre 2014, la prima creazione
cinematografica dei registi Maki Berchache e Nathalie Nambot. Documentario
d’ispirazione neorealista, la pellicola è guidata dalla voce fuori campo di un
narratore capace di dare una dimensione filmica al montaggio delle immagini.
Premiato al
Festival Internazionale del Cinema di
Marsiglia (2014), Brucia il mare
colpisce, in primo luogo, per la violenza immaginaria del suo titolo. Il
riferimento è anzitutto al termine di origine algerina harraga, letteralmente “coloro che bruciano”. Brucia il mare è dunque un’incitazione a “bruciare il
Mediterraneo”, che in gergo popolare rimanda alla possibilità di “superare il
mare”, di “oltrepassare rapidamente”, alla velocità di un baleno, la distanza
che separa il Maghreb dall’Italia, e più precisamente il passaggio dalla
Tunisia all’isola di Lampedusa.
Il docufilm passa
in rassegna la storia della migrazione clandestina di due giovani spinti ad imbarcarsi
per Lampedusa in seguito alla crisi politica in Tunisia, conseguenza degli
avvenimenti della Primavera Araba e della
cacciata del dittatore Ben Ali nel 2011. Dopo vari mesi passati in Italia,
miseri nelle tasche ma ricchi nella speranza e nella voglia di libertà, si
ritroveranno dapprima a Milano, poi a Ventimiglia, e infine a Parigi. Uno dei
due compagni, illuso come molti altri suoi connazionali dai bagliori delle
città occidentali, non riuscirà ad integrarsi alla vita mondana della capitale
francese, finendo per detestare i costumi transalpini e l’ipocrisia
sconcertante della comunità tunisina della ville
lumière. Dopo un breve e difficile passaggio da clandestino in Francia,
deciderà quindi di fare ritorno nella sua terra natale, senza scordare
l’amicizia e l’aiuto del caro compagno di viaggio, Maki.
Quest’ultimo, mai
rassegnato ad una vita da clandestino, s’impegnerà attivamente al fine di
acquistare i propri diritti di cittadino regolare. Dai primi mesi passati con i
compagni negli squat di Parigi, alle
manifestazioni di piazza, passando attraverso la militanza politica, Maki
troverà un suo proprio equilibrio, un lavoro, una casa, e il rispetto tanto
agognato. Il regista traspone quindi una sorta di racconto autobiografico, dove
il personaggio principale è lui stesso, capace oggi di raccontarsi e di narrare
al pubblico la propria storia, la propria avventura. Maki non pretende
rendere conto di una storia ideale, esemplare, ma di una “storia come tante
altre, la storia di tutti”. Lontano da un’eroica mitizzazione del proprio passato da clandestino e
militante, il giovane tunisino ripercorre fedelmente le tappe che lo hanno
portato all’integrazione, adottando un punto di vista umano, realista e
anticonformista. Brucia il mare
diviene cosi un invito a bruciare le frontiere, i documenti burocratici, le
identità convenzionali e i pregiudizi raziali che popolano l’immaginario e il
quotidiano degli occidentali. Ma la lotta di Maki non termina qui, perché
l’amore per la propria famiglia e la propria terra lo tormentano e i documenti
e il permesso di soggiorno, diventano infine l’unico modo per rivedere i propri
cari, nonché l’unico modo per dimostrare il proprio diritto ad esistere.
Il contrasto tra
la moderna e caotica vita parigina e i tranquilli pomeriggi delle campagne
tunisine rappresenta uno dei leitmotiv
dell’immaginario cinematografico di Maki Berchache. Se da una parte la capitale
francese è identificata come una possibilità di libertà, dall’altra il ricordo
della Tunisia fuggita è sempre più percepito come una nostalgica mancanza delle
radici familiari. Non a caso, il documentario insisterà molto sulla figura
della madre, sulle sue carezze, e l’odore del caffè da lei preparato ; cosi
come sull’abbraccio forte e sincero di un padre mai dimenticato.
Maki racconta in
modo intelligente la storia difficile di un uomo che forse non ha ancora
trovato la pace, ma che ha combattuto per la propria libertà, e che
incessantemente combatte i demoni della nostalgia e la tristezza di aver
lasciato una famiglia da amare. Maki non descrive in modo giornalistico e
idealista le umiliazioni subite dalle migliaia di clandestini che ogni giorno
drammaticamente sbarcano sulle coste italiane, non ci propone una visione militante
sulla tragedia dei clandestini in Europa. La forza e la bellezza del suo
racconto sono la naturalezza e la sincerità di un discorso fluido e cosciente,
una storia nella quale, infine ognuno di noi potrebbe davvero identificarsi.
Bruciare il sogno
: questo è il vero sogno. Bruciare forse anche il documentario, bruciare i
segni e le ingiustizie di un mondo globalizzato. Questo ci insegnano Nathalie e
Maki, e il volto scarno e vissuto di quest’ultimo diventa simbolo di una vita che
brucia e turba proprio come brucia il sale del mare, e turbano le onde di quel
muovere incessante immortalato all’inizio e alla fine della pellicola.
Immagine : Nicolas Rey
Suono : Nathalie Nambot
Montaggio : Gilda Fine
Con : Berchache Maki, Saidi Shaharedin, Nobig Badredin, Al Fawaghara Shadi, Sohbani Selim, El Saleh Mahmoud
Filmografia :
Nathalie Nambot: AMI, ENTENDS-TU?, 2010.
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