Benvenuti sul blog Phoesia

Sono lieto di condividere questo spazio personale con amici, conoscenti e lettori che maldestramente sono entrati in questa pagina. Sin dal 23 gennaio 2011, Phoesia offre riflessioni personali su molteplici temi quali poesia, letteratura, filosofia, arti plastiche, cinema, teatro e tanto altro ancora. Nonostante ciò, Phoesia resta uno spazio aperto alle riflessioni di chiunque abbia voglia di scrivere, in modo "impegnato", su queste tematiche. Un grande benvenuto a tutti!

25/02/11

LA MENDICANTE

La mendicante nel metrò ha gli occhi neri neri come la notte. E i suoi occhi sono scuri perchè mendica la vita. Inginocchiata ogni giorno, tutto il giorno. Avrà più o meno 20 anni. Chiaramente di origine araba, è misteriosa come la poesia. 
Indossa un foulard nero avvolto sui capelli, uno scialle anch'esso nero sulle spalle e una lunga gonna grigioscura che le copre le scarpe. Il suo viso è limpido, leggermente roseo, freddo e indifferente. La mendicante nel metrò ha un'espressività unica, bellissima e irraggiungibile come Dio. 
Ogni mattina e pomeriggio migliaia di persone le sfilano davanti senz'accorgersi di lei, della sua storia, del suo umore o delle sue paure. Chissà cosa penserà dietro quella sua bellezza misteriosa, arcana, primordiale.
La mendicante nel metrò fa male con i suoi occhi neri neri. Ecco perchè tutti fuggono il suo sguardo penetrante. Tutti la evitano, alcuni si fermano a lasciarle una moneta frettolosamente. Non c'è tempo per soffermarsi nella rincorsa al successo, nella fuga dai problemi o nella smania di non voler capire. 
Se esistesse un fiore che la rappresenti, occorrerebbe chiamarlo come lei, senza nome, senza identità. Andrebbe lasciato crescere senza senso, come crescono le parole nel bambino meraviglioso, terrificante. E sei lei fosse già il fiore? E se lei non avesse davvero un senso?
Come ogni mendicante non lascia trasparire emozioni dal suo volto abituato, limato nei lineamenti dalla dura realtà che l'ha concepito. La sua posizione ricorda la Madonna inginocchiata sotto il figlio crocifisso, la pietà antropomorfizzata. La mendicante nel metrò è una statua di Canova. Le sue linee-forza tagliano l'aria, percuotono il suono fino a renderlo sordo, più muto del silenzio. 
E tutti lo sanno, tutti evitano di ascoltarlo. La sua musica porta al di là del ponte, attraversa il non-luogo della passerella per arrivare laddove non si ha più sentimento. Il punto nel quale non c'è più la voglia, dove esiste solamente la veglia.

21/02/11

L'ULTIMO A PARLARE (Le dernier à parler)

Apparso per la prima volta in un numero speciale della Revue des belles lettres il 2 marzo 1972, L'ultimo a parlare è un libro di Maurice Blanchot (ed. Fata Morgana).
In questo magnifico testo, Maurice Blanchot scrive un'accorata dedica a Paul Celan, poeta di origine rumena ed ebrea, di lingua tedesca. Il filosofo francese esalta in questo pensiero le doti linguistiche di Paul Celan, lo stridore musicale delle consonanti tedesche, la potenza eccessiva, e dolorosa del Nichtes (niente). Blanchot prova a comunicarci l'incomunicabilità della poesia del poeta ebreo, una poesia dove le assenze sono fortemente presenti, dove le pause sono movimenti, dove i silenzi sono la musica più assordante. Parlare, questo è ciò che conta. E anche quando non si ha più la forza di parlare, si può ancora mormorare. Accennare il suono, suono soffocato nei lager nazisti, il suono acutamente stridente di quella Notte dei cristalli quando il treno di Celan si fermò a Berlino nel 1938. L'ultimo a parlare è il prossimo dopo la fine. E' la parola che sopravvive all'uomo, perchè "nessuno testimonia per il testimone". Da qui l'esigenza di non perdere la voce, di conservare il fiato fino all'ultimo per parlare, o meglio, sussurrare. 

Parla, anche te, 
parla l'ultimo a parlare, 
dì il tuo dire.

Parla ---
Tuttavia non separare dal Si il 
No.
Dai alla tua parola anche il senso:
donandole l'ombra.

Donale abbastanza d'ombra, 
donale altrettanta ombra
fino a che intorno a te tu la sappia sparsa
tra 
Mezzanotte Mezzogiorno Mezzanotte. 

                                               (Paul Celan)

17/02/11

LA SCRITTURA DEL DISASTRO

Vorrei ufficialmente presentare un libro per me molto importante in quanto oggetto della mia tesi alla Sorbonne Nouvelle. 
Si tratta de La scrittura del disastro (L'écriture du désastre) dello scrittore, filosofo e maitre à penser francese Maurice Blanchot. Uscito per Gallimard nel 1980, La scrittura del disastro si presenta come un microcosmo di frammenti d'immensa portata intellettuale e filosofica. Mi occorrerebbe troppo tempo per raccontare la genesi di questo capolavoro, quindi mi limiterò a qualche libera considerazione. Quando per la prima volta iniziai a leggere le pagine del libro, sentitii un'energia molto forte che fuoriusciva come un liquido da quell'ingorgo di segni. Pertanto, decisi da subito che avrei lavorato a lungo sull'opera di Maurice Blanchot. Non mi fu necessario di approfondire molto l'analisi, è una di quelle cose che si sentono e basta, senza spiegazione, un po' come per l'amore. Ma non mischiamo il sacro con il profano... (ma qual è il sacro e qual è il profano?!?). 
Ad oggi, sono ormai  6 mesi che dedico una parte delle mie giornate all'interpretazione e allo studio dei frammenti di Maurice Blanchot. Ciò può apparire ossessivo, inutile, ripetitivo, monotono. Niente di più sbagliato. Con il tempo ho imparato che grazie a Blanchot non si entra "solamente" in un mondo "diverso" o in una letteratura di grande spessore culturale, ma anche che il maestro francese ci ha lasciato una maniera di pensare i fenomeni letterari, poetici, filosofici e artistici mondiali completamente diversa. Leggere La scrittura del disastro, significa imparare a ri-leggere tutta la fenomenologia culturale occidentale (e non solo). Da qui la necessità di una ricerca approfondita sul suo testo più enigmatico e affascinante. 
Inoltre, grazie al particolare taglio che ho deciso di dare alla tesi, ho cominciato un lungo viaggio che mi ha portato allo studio approfondito dei grandi maestri della psicanalisti, da Freud a Jung, da Lacan a Leclaire e molti altri. 
Successivamente pubblicherò gli sviluppi della tesi approvati dal mio direttore di ricerca, in modo da far capire alcune importanti sfumature del La scrittura del disastro e, soprattutto, spiegare il significato del termine "disastro" nell'accezione blanchottiana.

11/02/11

BIBI

La 54° edizione del World Press Photo 2011, che ogni anno premia i migliori scatti del pianeta, è andata alla sudafricana Jodie Bieber. La fotografa ha immortalato nel suo scatto principale l'immagine di una giovane donna di 18 anni, un'afghana di nome Bibi Aisha. 
La foto è di rara profondità, sopraffine nel suo contenuto. Bibi è sfigurata, mutilata. E questo crea un contrasto impressionante con l'aura placida emanata dai suoi occhi, con la bellezza del resto del suo volto, con i suoi magnifici capelli ondulati, nerissimi. A Bibi è stato fatto tagliare il naso e le orecchie per ordine di un giudice afghano. La sua colpa è stata quella di aver tentato la fuga dal marito talebano che la violentava e la picchiava, con l'accondiscendenza e  il contributo della sua famiglia. 
Jodie Bieber compie un prodigio con la sua immagine, crea un monstrum nel senso strettamente latino del termine. La fotografia taglia l'occhio, fa male come una scheggia finissima penetrata in profondità. 
Ma non voglio impietosirmi solamente di fronte a una tale violenza. Voglio rifiutarla. Voglio rifiutare quel mondo che l'ha concepita, e per rifiutare intendo dire combatterla. Ma le bombe occidentali che hanno mutilato altre donne come Bibi a Kabul e altrove non servono al mio combattimento. Rifiuto anch'esse. 
L'unica maniera per vincere il combattimento, è mobilitare l'informazione, la cultura, l'emancipazione. Sviluppare giorno dopo giorno il senso umanitario dentro le persone. Allargare in modo gigantesco questa tela di ragno al fine di farle inglobare il regresso, per cambiarlo, definitivamente.
Leggiamo in questi giorni le notizie delle grandi rivoluzioni del mondo arabo, dalla Tunisia di qualche giorno fa all'Egitto, notizia fresca di alcune ore. E finalmente sono rivoluzioni liberatorie, senza Fratelli Musulmani e senza bombe americane. Sono esplosioni d'ideali, di voglia di differenziarsi. 
Credo fermamente che le leggi non rappresentino i doveri dell'uomo. Perchè le leggi possono essere sbagliate. In qualunque posto, in ogni epoca, in ogni cultura. 
Il dovere dell'uomo è l'emancipazione di se stesso.


                                         

08/02/11

DAPHNE'

Come d'abitudine da un po' di tempo a questa parte, mi sono recato anche stasera davanti ad uno dei teatri di Parigi che a turno mi capitano al fine di consegnare flyers musicali, in questo caso La bouffe du Nord. Dopo un'oretta di consuetudinario volantinaggio (con annunciazione vocale annessa), una signora mi si è avvicinata. Non più giovane, essa conservava ancora un notevole fascino alla francese e i suoi occhi profondi mi hanno colpito immediatamente. 
"Vuole entrare al concerto? Ho un biglietto in più..." 
Istintivamente ho risposto di si, dopo tutto non capita spesso di entrare gratuitamente in un teatro così costoso per vedere un concerto. Appena scaduto il tempo dei flyers ho così preso il mio zainetto e sono entrato.
Il primo scorcio della platea è stato mozzafiato. Era veramente un bel po' di tempo che non vedevo un posto così bello. La Bouffe du Nord è un teatro costruito nel 1876 dall'architetto Louis-Marie Emile Leménil. Non ebbe mai molto successo di fronte alla grandeur dei tanti teatri parigi, almeno fino alla sua riscoperta nel 1974. Fu soprattutto grazie a Peter Brook e Micheline Rozan che cominciò a divenire uno dei luoghi simbolo della Ville Lumière. La Bouffe du Nord si presenta come un teatro in stile quasi veneziano dell'epoca di Goldoni. Dall'aspetto rude, quasi malconcio, poco ristrutturato, proietta lo spettatore indietro di due secoli buoni. Il suo fascino è indescrivibile, l'atmosfera è da vaudeville rivoluzionario. Insomma, mai visto un teatro così in vita mia. 
Prendo posto in Balcone e dopo poco la signora del biglietto mi raggiunge. Le chiedo cosa c'è questa sera e lei risponde che canta Daphné. Mi spiega in breve la storia della cantante francese e iniziamo così una piacevolissima conversazione. Dopo un po', ecco che inizia il concerto. Daphné è bellissima, e la sua voce incanta. Le luci contornano con maestria la sua figura e le ombre del suo profilo scolpiscono la tenda bianca dietro di lei. La musica è sublime, tra violini e violoncelli, piano e chitarra, xilofono e batteria, trovano posto molti tocchi di sperimentazione sul suono accompagnati da qualche dissonanza arrangiata ad arte.
In breve, la serata si rivela meravigliosa, improvvisata, da godere. Il momento culmine, almeno per me, è nell'interpretazione di Daphné di un pezzo di Charles Aznavour, del quale però in questo momento non ricordo il titolo. 
Sono queste le serate in cui esco di casa malinconico maledicendo le centinaia di volantini che ho in mano, per poi amare ogni secondo della stessa serata, una qualunque è vero, ma un po' più speciale delle altre. 




06/02/11

CAFE' "LA RENCONTRE"

Vorrei parlare oggi sul blog di un posto a me caro da quando sono a Parigi: il café ristorante "La Rencontre".
La prima volta che entrai in questo locale fu nel maggio 2010, per prendere un caffè, senza troppe pretese. Situato nel 5 arrondissement di Parigi, di fronte all'ingresso dell'Université Sorbonne Nouvelle-Paris 3, "La Rencontre" fu da subito una piacevole scoperta. 
Oggi come oggi, è per me un punto di ritrovo con amici e conoscenti, un luogo alternativo dove parlare di tutto, dalla politica all'arte, dalla quotidianeità alla volgarità (anch'essa costruttiva). Ho cominciato a frequentare con una certa continuità il café dopo aver conosciuto Anne, una simpatica ragazza che vi lavorava (e vi lavora ancora) come cameriera. Dall'amicizia con Anne, ho iniziato a prendere una certa confidenza con il padrone e con gli uomini e le donne che frequentano il posto. Nonostante la buona posizione e il suo arredamento "alternativo" ne facciano un luogo ideale per gli incontri, "La Rencontre" non è un café habituel degli universitari di Paris 3. A parte questo aspetto, è davvero un ambiente ottimo per conoscere gente nuova e spesso molto acculturata. Nel piano sotterraneo c'è infatti uno spazio teatro dove alcune compagnie di teatranti provano i loro spettacoli, spettacoli che in seguito verranno eseguiti nei famosi teatri parigini. 
Oltre a ciò, "La Rencontre" è frequentata da artisti di vario genere tra i quali pittori, scultori, liutai, musicisti, giornalisti, poeti che trovano qui un po' di pace e tranquillità e una buona compagnia. E' qui che spesso passo la parte finale dei miei pomeriggi dopo le mie quasi quotidiane ricerche alla biblioteca di Censier/Daubenton. 
Certe volte, credo che "La Rencontre" sia una vera e propria Babele linguistica. Persone di età e culture molto differenti tra di loro (algerini, italiani, francesi, cubani, marocchini, russi, dominicani, tunisini, brasiliani ecc.) trovano qui uno spazio aperto per discutere, scambiarsi opinioni e imparare gli uni dagli altri parole in lingue diverse.
Ogni volta che esco da questo café mi sento arricchito in senso umano, nello spirito (grazie al buon senso di umorismo presente nell'aria) e anche nell'intelletto.
Vorrei dunque ringraziare tutti gli amici de "La rencontre", luogo che mi fa scordare il freddo parigino e mi fa sentire come a casa mia.

04/02/11

SAUDADE O TRISTEZZA FELICE

Sulle dolci note della bossanova dalla  Marcha da 4a feria de cinzas ho sentito tutta la tristezza felice di una cultura, di un sentimento, quello lusitano. 
Toquinho e Vinicius de Moraes, con i loro arpeggi, sembrano poter toccare il cuore con la mano di un angelo. Come noto, la sola parola in grado di rendere conto di questa incredibile sensazione è l'intraducible saudade, sentimento comune a tutti i paesi lusofoni. Ma cos'è veramente la saudade? E perchè è così difficile da tradurre, da capire per noi italiani? 
La saudade, non trovo espressione migliore, è una tristezza felice. Tristezza felice perchè è senso di un passato che non ritornerà, un passato felice, una bellezza perduta ma trovata almeno una volta. Se non ricordo male, Antonio Tabucchi, scrittore e maestro della cultura portoghese, traduceva il termine con il dantesco disìo. Rimane, per quanto mi riguarda, l'unica parola italiana che può veramente trasporre la saudade nella nostra lingua, per quanto comporti molte difficoltà. 
Se dovessi descrivere la saudade con una metafora tattile, direi che è il piacere impossibile di accarezzare un'onda dal mare senza bagnarsi. Piacere sperato, irraggiungibile, utopico, eppure sensoriale, vissuto. Saudade è l'amore amato in una notte lunga una vita quando, al risveglio al mattino, un uomo si ritrova solo nel letto convinto di aver baciato la donna più bella del mondo, la donna-angelo. Un momento dove l'orizzonte tra sogno e realtà appare sfuocato e forse privo di senso.