In queste settimane di appassionate letture del Romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani, mi sono reso conto, per la prima volta, della grande abilità narrativa di questo scrittore. Non posso in effetti esimermi dal pensare che, quanto a precisione narrativa, Giorgio Bassani meriti indiscutibilmente di abitare il pantheon della letteratura italiana del XX secolo.
Se la letteratura di Bassani può essere letta da infiniti punti di vista, evidenziando innumerevoli tematiche e criticità storiche, ciò che più mi preme in questo momento è di metterne in rilievo la poetica della descrizione. Come si legge dal titolo, parlerei in realtà di una vera e propria antologia della descrizione, tante sono le maniere di descrivere e raccontare i particolari nei suoi romanzi.
La città di Ferrara è ovviamente il centro di gravità della poetica descrittiva di Bassani. Più in particolare, vorrei rendere conto di alcuni tratti di questa facoltà innata di materializzare immagini, al tempo stesso precise e sfumate, all'interno di quello che è il romanzo certamente più conosciuto dello scrittore ferrarese : Il Giardino dei Finzi-Contini.
Bassani non riuscirà ad entrare al di là delle mura di cinta del Barchetto del Duca (così viene definito lo splendido giardino che si cela nella proprietà dei Finzi-Contini) prima del 1938, all'epoca della promulgazione delle leggi razziali italiane. Uno dei momenti più alti della descrizione del Barchetto del Duca si trova alla pagina 339 del Romanzo di Ferrara (Ed. Feltrinelli), quinto capitolo della parte seconda del Giardino dei Finzi-Contini. Micòl convince Giorgio a visitare il giardino, e farà lui da guida in questa appassionata avventura descrittiva :
- "Ecco là i miei sette vecchioni", poteva dire. "Guarda che barbe venerande hanno!"
Sul serio - insisteva - : non parevano anche a me sette eremiti della Tebaide, asciugati dal sole e dai digiuni? Quanta eleganza, quanta santità in quei loro tronchi bruni, secchi, curvi, scagliosi! Assomigliavano ad altrettanti San Giovanni Battista, veramente, nutriti di sole locuste. - (p. 339)
In questo breve passaggio, dove Bassani descrive con la voce di Micòl le sette Washingtoniae graciles, o palme del deserto, presenti nel giardino, lo scrittore ferrarese sprigiona tutta la forza poetica del proprio racconto, accostando l'immagine delle piante alle immagini sacre della tradizione biblica. In questi due paragrafi, la descrizione è caratterizzata da certi espedienti retorici (prosopopea, similitudine, allegoria) che portano ad una certa sinuosità descrittiva, forse un po' artificiosa ma sempre intelligibile, quasi esplicativa.
In altri passaggi, Bassani cerca il contatto con il sacro dell'immagine attraverso una descrizione allo stesso tempo più semplice (con meno artifici retorici), precisa e indefinita. Ne è un esempio la descrizione che Micòl fa del giardino visto dalla finestra di camera, e più in particolare degli effetti dell'inverno e della nebbia :
- Ma presto o tardi la pioggia sarebbe finita : e allora la nebbia, di mattina, trafitta dai deboli raggi del sole, si sarebbe trasformata in un che di prezioso, di delicatamente opalescente, dai riflessi in tutto simili nel loro cangiare a quelli dei "làttimi" di cui aveva piena la stanza. - (p. 352)
Parlando dell'immagine della nebbia cadente sul Barchetto del Duca, Bassani ci arricchisce di una descrizione che porta un'aurea di sacralità, ma questa volta senza espliciti riferimenti all'antichità biblica. Aggiungerei, che questo effetto mistico è reso dall'impiego dei termini "trafitto", "prezioso", "trasformata", "opalescente", "riflessi". Da un punto di vista semantico, Bassani passa da un termine forte, duro e concreto come "trafitto", a parole inconsistenti, vaghe, velate di significato, le quali si accostano magistralmente alla parola "nebbia" (che resta concreta, sensuale in qualche modo).
Si potrebbero enucleare molti altri esempi e modi di descrizione nelle brevi pagine che caratterizzano l'ingresso nel giardino. Questo ci porterebbe però a uscire dalla logica minimalista di un post da blog. La grande maestria nella descrizione fa del Romanzo di Ferrara un pozzo senza fine di immagini, di tecniche narrative e di espedienti retorici. Ritornerò a più riprese su quella che ho definito l'Antologia della descrizione di Bassani, in quanto non si può non rendere conto della precisione della descrizione dei personaggi umani, animali di questo scrittore, e soprattutto della descrizione dello spazio urbano e architettonico di Ferrara, che resta forse il miglior esempio della tecnica narrativa bassaniana.
Giorgio De Chirico, Piazza d'Italia, olio su tela
Phoesia di Luca Pallanti
Il confine tra finzione e realtà è in realtà una finzione
Benvenuti sul blog Phoesia
Sono lieto di condividere questo spazio personale con amici, conoscenti e lettori che maldestramente sono entrati in questa pagina. Sin dal 23 gennaio 2011, Phoesia offre riflessioni personali su molteplici temi quali poesia, letteratura, filosofia, arti plastiche, cinema, teatro e tanto altro ancora. Nonostante ciò, Phoesia resta uno spazio aperto alle riflessioni di chiunque abbia voglia di scrivere, in modo "impegnato", su queste tematiche. Un grande benvenuto a tutti!
29/10/14
10/10/14
BRUCIA IL MARE (titolo originale : BRÛLE LA MER)
Docufilm realizzato
da Maki Berchache e Nathalie Nambot. Produzione : Les Films du Bilboquet, Francia,
2014 (16 mm/8 mm, colore, pellicola classica. Durata : 75 min.)
È nella grande sala
del Cinema d’Arte e d’Essai L’Étoile,
nella cittadina di La Courneuve
(Parigi), che viene proiettata , il 4 ottobre 2014, la prima creazione
cinematografica dei registi Maki Berchache e Nathalie Nambot. Documentario
d’ispirazione neorealista, la pellicola è guidata dalla voce fuori campo di un
narratore capace di dare una dimensione filmica al montaggio delle immagini.
Premiato al
Festival Internazionale del Cinema di
Marsiglia (2014), Brucia il mare
colpisce, in primo luogo, per la violenza immaginaria del suo titolo. Il
riferimento è anzitutto al termine di origine algerina harraga, letteralmente “coloro che bruciano”. Brucia il mare è dunque un’incitazione a “bruciare il
Mediterraneo”, che in gergo popolare rimanda alla possibilità di “superare il
mare”, di “oltrepassare rapidamente”, alla velocità di un baleno, la distanza
che separa il Maghreb dall’Italia, e più precisamente il passaggio dalla
Tunisia all’isola di Lampedusa.
Il docufilm passa
in rassegna la storia della migrazione clandestina di due giovani spinti ad imbarcarsi
per Lampedusa in seguito alla crisi politica in Tunisia, conseguenza degli
avvenimenti della Primavera Araba e della
cacciata del dittatore Ben Ali nel 2011. Dopo vari mesi passati in Italia,
miseri nelle tasche ma ricchi nella speranza e nella voglia di libertà, si
ritroveranno dapprima a Milano, poi a Ventimiglia, e infine a Parigi. Uno dei
due compagni, illuso come molti altri suoi connazionali dai bagliori delle
città occidentali, non riuscirà ad integrarsi alla vita mondana della capitale
francese, finendo per detestare i costumi transalpini e l’ipocrisia
sconcertante della comunità tunisina della ville
lumière. Dopo un breve e difficile passaggio da clandestino in Francia,
deciderà quindi di fare ritorno nella sua terra natale, senza scordare
l’amicizia e l’aiuto del caro compagno di viaggio, Maki.
Quest’ultimo, mai
rassegnato ad una vita da clandestino, s’impegnerà attivamente al fine di
acquistare i propri diritti di cittadino regolare. Dai primi mesi passati con i
compagni negli squat di Parigi, alle
manifestazioni di piazza, passando attraverso la militanza politica, Maki
troverà un suo proprio equilibrio, un lavoro, una casa, e il rispetto tanto
agognato. Il regista traspone quindi una sorta di racconto autobiografico, dove
il personaggio principale è lui stesso, capace oggi di raccontarsi e di narrare
al pubblico la propria storia, la propria avventura. Maki non pretende
rendere conto di una storia ideale, esemplare, ma di una “storia come tante
altre, la storia di tutti”. Lontano da un’eroica mitizzazione del proprio passato da clandestino e
militante, il giovane tunisino ripercorre fedelmente le tappe che lo hanno
portato all’integrazione, adottando un punto di vista umano, realista e
anticonformista. Brucia il mare
diviene cosi un invito a bruciare le frontiere, i documenti burocratici, le
identità convenzionali e i pregiudizi raziali che popolano l’immaginario e il
quotidiano degli occidentali. Ma la lotta di Maki non termina qui, perché
l’amore per la propria famiglia e la propria terra lo tormentano e i documenti
e il permesso di soggiorno, diventano infine l’unico modo per rivedere i propri
cari, nonché l’unico modo per dimostrare il proprio diritto ad esistere.
Il contrasto tra
la moderna e caotica vita parigina e i tranquilli pomeriggi delle campagne
tunisine rappresenta uno dei leitmotiv
dell’immaginario cinematografico di Maki Berchache. Se da una parte la capitale
francese è identificata come una possibilità di libertà, dall’altra il ricordo
della Tunisia fuggita è sempre più percepito come una nostalgica mancanza delle
radici familiari. Non a caso, il documentario insisterà molto sulla figura
della madre, sulle sue carezze, e l’odore del caffè da lei preparato ; cosi
come sull’abbraccio forte e sincero di un padre mai dimenticato.
Maki racconta in
modo intelligente la storia difficile di un uomo che forse non ha ancora
trovato la pace, ma che ha combattuto per la propria libertà, e che
incessantemente combatte i demoni della nostalgia e la tristezza di aver
lasciato una famiglia da amare. Maki non descrive in modo giornalistico e
idealista le umiliazioni subite dalle migliaia di clandestini che ogni giorno
drammaticamente sbarcano sulle coste italiane, non ci propone una visione militante
sulla tragedia dei clandestini in Europa. La forza e la bellezza del suo
racconto sono la naturalezza e la sincerità di un discorso fluido e cosciente,
una storia nella quale, infine ognuno di noi potrebbe davvero identificarsi.
Bruciare il sogno
: questo è il vero sogno. Bruciare forse anche il documentario, bruciare i
segni e le ingiustizie di un mondo globalizzato. Questo ci insegnano Nathalie e
Maki, e il volto scarno e vissuto di quest’ultimo diventa simbolo di una vita che
brucia e turba proprio come brucia il sale del mare, e turbano le onde di quel
muovere incessante immortalato all’inizio e alla fine della pellicola.
Immagine : Nicolas Rey
Suono : Nathalie Nambot
Montaggio : Gilda Fine
Con : Berchache Maki, Saidi Shaharedin, Nobig Badredin, Al Fawaghara Shadi, Sohbani Selim, El Saleh Mahmoud
Filmografia :
Nathalie Nambot: AMI, ENTENDS-TU?, 2010.
12/05/14
IS THE MAN WHO IS TALL HAPPY ?
Qualche ritocco al look del blog e di nuovo in pista dopo una lunga assenza in cui la logica del quotidiano ha sopraffatto la poesia grazie alle sue seduzioni materiali e vigliaccherie teatrali. Tutto normale (o quasi).
Ritorno con forza peró, perchè il post è largamente ispirato dall'ultima uscita cinematografica di Michel Gondry : "Is the Man Who is Tall Happy ? (Conversation animée avec Noam Chomsky)". Ebbene si, ritorno alla scrittura sul blog con tutto il piacere dei ricordi dei corsi di linguistica di qualche anno fa in quel di Firenze, quando per la prima volta sentii il nome di Noam Chomsky e attraversai le sue teorie sul linguaggio.
E non ne resto deluso. Michel Gondry calibra bene la sua vecchia macchina da presa e illustra metodicamente le sue intenzioni, il suo punto di vista e lo svolgimento degli appuntamenti filmati con Noam Chomsky. Docu-Film eccellente dall'inizio alla fine, dove le immagini colorate, talvolta puerili, messe a punto da Gondry fanno da eco alle teorie del maître-à-penser statunitense di origini ebraiche. Una delle trovate migliori del regista francese è quella di mettersi fin da subito in una posizione d'umiltà intellettuale : la tensione della voce narrante fa capire allo spettatore il disagio e la difficoltà di Gondry una volta iniziato il dialogo.
Noam Chomsky sembra invece essere tranquillo davanti alla telecamera, e risponde senza mai scomporsi alle domande. Le intenzioni di Gondry, si capiscono bene fin da subito, tendono a interrogare soprattutto la vita privata del filosofo, gli studi, gli amori, l'impegno politico ecc... . Chomsky, dal canto suo, conosce bene le difficoltà del linguaggio e le trappole che nasconde, essendone probabilmente il più grande esperto al mondo ancora vivente, e devia la conversazione verso l'astratto, cercando di spostare l'attenzione dello spettatore dalla sua figura personale e professionale al nucleo impersonale del suo discorso.
Sono molto colpito da questo suo modo di agire : nessun impeto di narcisismo intellettuale, alcun compiacimento. Chomsky, da grande umanista anarchico qual è, non perde tempo ad imbellettare il proprio discorso, e va dritto al punto : la teoria della conoscienza. Il teorico americano mette inizialmente l'accento sull'importanza della rivoluzione scientifica moderna, quella iniziata da Cartesio, Galileo, poi da Newton, e ancora Hume ecc.. Nella figura di Galileo vede il più importante punto di rottura della storia del pensiero occidentale : il nuovo mondo è quello della fisica meccanica, la filosofia dell'intelligibile diventa l'emblema dell'uomo moderno. Ma c'è di più. Chomsky prosegue il suo discorso ricordandoci che i fisici e gli scienziati si sono resi conto che certi elementi comunicavano tra di loro "a distanza", e allora il mondo cambia e alla filosofia dell'intelligibile si aggiunge quella del non-intelligibile, aggiungo io, del romanticismo. Quale una fessura nel solido mondo delle scienze naturali positiviste, l'incomprensibile resta un fenomeno come un altro. Ad esempio l'evoluzione.
Interrogato da Gondry sulla teoria dell'evoluzione, il ragionamento di Chomsky non fa una piega : nessun uomo puó oggi negare la validità delle teoria dell'evoluzione. Ma l'evoluzionismo resta un fenomeno tra gli altri. Il maître-à-penser americano fa valere in questi frangenti tutta la grandezza del proprio ragionamento, e la sua posizione in merito all'epistemologia : nessun sistema d'idee puó caratterizzare la teoria della conoscienza. Nessun assoluto, nessuna totalità : solo frammenti e pluralità di fenomeni. Interrogato sulle questioni religiose, Chomsky si trova costretto ad esprimere il proprio parere personale, ma senza imporlo, dichiarando comprensibile ogni altra presa di posizione. Mentre guardo il documentario non posso impedirmi di pensare alla figura di Sisifo : Chomsky è un Sisifo contemporaneo che spinge una pietra che non arriverà mai al termine della salita. Prende tutto quel che trova, prova a spiegare i meccanismi e i processi, ma niente lo porterà a spiegare il mistero che si trova sulla vetta. E d'altronde, una volta interrogato da Gondry sui meccanismi del mistero, Chomsky risponderà che in fisica, attualmente, si ignora tutto dei processi del mistero. Detto da un uomo che ha lavorato per quasi tutta la carriera nel più importante complesso di ricerca scientifica del pianeta, il MIT di Boston, fa un certo effetto.
La parte conclusiva dell'intervista si concentra sulla teoria della grammatica generativa. Non entro nei dettagli di questa teoria perchè intendo consacrare in futuro un post a questa problematica. Ma Noam Chomsky mette l'accento sulla relativa semplicità dei suoi postulati, risultanti essenzialmente dalle sue capacità di osservazione e di ragionamento logico.
"Is the Man Who is Tall Happy" resta un documento importante, e Gondry ha il merito di portare davanti al grande pubblico una figura centrale della nostra epoca, con uno stile e un tipo di narrazione personali e accessibili. Lode al merito di questo regista per aver regalato al suo pubblico un momento d'astrazione sicuramente indimenticabile.
Ritorno con forza peró, perchè il post è largamente ispirato dall'ultima uscita cinematografica di Michel Gondry : "Is the Man Who is Tall Happy ? (Conversation animée avec Noam Chomsky)". Ebbene si, ritorno alla scrittura sul blog con tutto il piacere dei ricordi dei corsi di linguistica di qualche anno fa in quel di Firenze, quando per la prima volta sentii il nome di Noam Chomsky e attraversai le sue teorie sul linguaggio.
E non ne resto deluso. Michel Gondry calibra bene la sua vecchia macchina da presa e illustra metodicamente le sue intenzioni, il suo punto di vista e lo svolgimento degli appuntamenti filmati con Noam Chomsky. Docu-Film eccellente dall'inizio alla fine, dove le immagini colorate, talvolta puerili, messe a punto da Gondry fanno da eco alle teorie del maître-à-penser statunitense di origini ebraiche. Una delle trovate migliori del regista francese è quella di mettersi fin da subito in una posizione d'umiltà intellettuale : la tensione della voce narrante fa capire allo spettatore il disagio e la difficoltà di Gondry una volta iniziato il dialogo.
Noam Chomsky sembra invece essere tranquillo davanti alla telecamera, e risponde senza mai scomporsi alle domande. Le intenzioni di Gondry, si capiscono bene fin da subito, tendono a interrogare soprattutto la vita privata del filosofo, gli studi, gli amori, l'impegno politico ecc... . Chomsky, dal canto suo, conosce bene le difficoltà del linguaggio e le trappole che nasconde, essendone probabilmente il più grande esperto al mondo ancora vivente, e devia la conversazione verso l'astratto, cercando di spostare l'attenzione dello spettatore dalla sua figura personale e professionale al nucleo impersonale del suo discorso.
Sono molto colpito da questo suo modo di agire : nessun impeto di narcisismo intellettuale, alcun compiacimento. Chomsky, da grande umanista anarchico qual è, non perde tempo ad imbellettare il proprio discorso, e va dritto al punto : la teoria della conoscienza. Il teorico americano mette inizialmente l'accento sull'importanza della rivoluzione scientifica moderna, quella iniziata da Cartesio, Galileo, poi da Newton, e ancora Hume ecc.. Nella figura di Galileo vede il più importante punto di rottura della storia del pensiero occidentale : il nuovo mondo è quello della fisica meccanica, la filosofia dell'intelligibile diventa l'emblema dell'uomo moderno. Ma c'è di più. Chomsky prosegue il suo discorso ricordandoci che i fisici e gli scienziati si sono resi conto che certi elementi comunicavano tra di loro "a distanza", e allora il mondo cambia e alla filosofia dell'intelligibile si aggiunge quella del non-intelligibile, aggiungo io, del romanticismo. Quale una fessura nel solido mondo delle scienze naturali positiviste, l'incomprensibile resta un fenomeno come un altro. Ad esempio l'evoluzione.
Interrogato da Gondry sulla teoria dell'evoluzione, il ragionamento di Chomsky non fa una piega : nessun uomo puó oggi negare la validità delle teoria dell'evoluzione. Ma l'evoluzionismo resta un fenomeno tra gli altri. Il maître-à-penser americano fa valere in questi frangenti tutta la grandezza del proprio ragionamento, e la sua posizione in merito all'epistemologia : nessun sistema d'idee puó caratterizzare la teoria della conoscienza. Nessun assoluto, nessuna totalità : solo frammenti e pluralità di fenomeni. Interrogato sulle questioni religiose, Chomsky si trova costretto ad esprimere il proprio parere personale, ma senza imporlo, dichiarando comprensibile ogni altra presa di posizione. Mentre guardo il documentario non posso impedirmi di pensare alla figura di Sisifo : Chomsky è un Sisifo contemporaneo che spinge una pietra che non arriverà mai al termine della salita. Prende tutto quel che trova, prova a spiegare i meccanismi e i processi, ma niente lo porterà a spiegare il mistero che si trova sulla vetta. E d'altronde, una volta interrogato da Gondry sui meccanismi del mistero, Chomsky risponderà che in fisica, attualmente, si ignora tutto dei processi del mistero. Detto da un uomo che ha lavorato per quasi tutta la carriera nel più importante complesso di ricerca scientifica del pianeta, il MIT di Boston, fa un certo effetto.
La parte conclusiva dell'intervista si concentra sulla teoria della grammatica generativa. Non entro nei dettagli di questa teoria perchè intendo consacrare in futuro un post a questa problematica. Ma Noam Chomsky mette l'accento sulla relativa semplicità dei suoi postulati, risultanti essenzialmente dalle sue capacità di osservazione e di ragionamento logico.
"Is the Man Who is Tall Happy" resta un documento importante, e Gondry ha il merito di portare davanti al grande pubblico una figura centrale della nostra epoca, con uno stile e un tipo di narrazione personali e accessibili. Lode al merito di questo regista per aver regalato al suo pubblico un momento d'astrazione sicuramente indimenticabile.
26/11/13
JAN FABRE : TRAGEDY OF A FRIENDSHIP
NIETZSCHE CONTRO WAGNER
All'Opera di Lille è andato in scena l'attesissima "Tragedy of a Friendship" di Jan Fabre, artista poliedrico e avanguardista, che irrompe sul palcoscenico con la sua ultima creazione.
"Tragedy of a Friendship" suona subito come un avvertimento allo spettatore, che deve fin dall'inizio abbandonarsi ad un clima surreale e a non senses da far sbandare anche gli habitués dell'assurdo. La tragedia in questione è quella che porta un Nietzsche agli inizi della feroce malattia che lo porterà alla pazzia negli anni seguenti ad esprimersi contro Richard Wagner, in uno dei testi più violenti scritti dal filosofo tedesco : Il caso Wagner (1888).
Nietzsche inizia a fare i conti con certi problemi mentali oltre che fisici (dovuti al bipolarismo, probabilmente alla sifilide e forse anche alla presenza di un meningioma e ad altre malattie neurodegenerative), problemi che culmineranno nel primo collasso mentale del filosofo a Torino, nel 1889. Jan Fabre si fa esploratore degli abissi della mente di Nietzsche, mettendone in mostra gli estremi, le perversioni, gli incubi. Calando la sala in un'opaca sensazione onirica, Fabre mette dapprima nell'angolino lo spettatore, poi lo pugnala alla schiena, dove è sicuro di far male. Risultato spietato, quando dopo venti minuti dall'inizio della rappresentazione una buona quindicina di spettatori della platea lascia il proprio posto. La scena in questione mostra una realistica violenza sessuale di gruppo ai danni di una giovane ragazza, curata in ogni minimo dettaglio. Gli uomini in scena sono nudi, gridano, rivelano il loro istinto animelesco e la loro perversione all'aumentare delle grida della ragazza. La dialettica reale/irreale finisce per provocare una forte identificazione da parte dello spettatore che, ormai distratto dalla quotidianeità, transferisce inconscientemente la sua verità sulla scena.
Sulle decadenti note wagneriane, la follia di Nietzsche peggiora di minuto in minuto, costringendo lo spettatore alla lettura della traduzione francese del canto lirico sulle apposite lavagne luminose, per non perdersi nel vortice della follia del filosofo.
Il tema della sessualità, per lo più perversa, ma a tratti sincera e poco stilizzata, percorre tutte le tre ore e quindici minuti della duarata dell'opera. Bisogna dire che ricevere una cosi massiccia dose di malefico surreale senza neanche una pausa sigaretta ti costringe a volte a concentrarti su di almeno un buon bicchier d'acqua !
Niente da eccepire, Fabre torna per provocare il pubblico, e lo fa nella maniera migliore, costringendolo davanti a verità meschine durante certe lunghe (forse troppo) fasi ripetitive realizzate sul palcoscienico. Se dal punto di vista dello sforzo formale, artistico e poetico il risultato è eccellente, resta da discutere della scenografia e degli attori.
Questi ultimi sono chiamati a uno sforzo fisico davvero importante, e cio' finisce inevitabilmente per ripercuotersi sulle loro prestazioni in certi passaggi. Da apprezzare sono comunque le forme create dai ballerini e ballerine, che portano in seno una forte poeticità e la fluidità irrazionale del pensiero nietzschiano. Il palco è dominato dalla presenza di due ampolle giganti piazzate alle estremità. Queste partecipano in modo essenziale alla creazione di un'atmosfera surreale. Per il resto, la scenografia è ridotta al minimo e questo, resta forse uno dei limiti di questa rappresentazione. Da notare la scarsa rendita delle immagini proiettate sul fondo del teatro, certamente volute da Jan Fabre, ma di modesto impatto (si poteva fare meglio credo).
Insomma, Tragedy of a Friendship è un'opera densa e difficilmente accessibile. Da un lato la difficile controversia sull'amizia tra Wagner e Nietzsche, dall'altro la ricerca esasperata di un'arte sperimentale, molto deviata rispetto ai canoni classici.
L'impressione è che anche il pur emancipato pubblico di Lille si sia trovato davanti a qualcosa di diverso e difficile da digerire. Alla fine gli applausi ci sono, ma il bis dei ballerini è artificiale, senza una vera acclamazione degli spettatori.
Segno che la performance teatrale ha funzionato, provocando il rifiuto del pubblico, ferito nelle corde del proprio inconscio.
31/10/13
INCONTRO CON JEAN-BERNARD SOUDERES
Come promesso, ho il piacere dei presentare una persona che ho conosciuto un po' di tempo fa e con la quale ho stretto un legame importante : si tratta del fotografo/artista Jean-Bernard Souderes.
Di piccola statura, profilo scarno, Jean-Bernard è un uomo capace di lasciare il segno prima di tutto per la sua simpatia e cordialità.
La prima volta che l'ho incontrato fu durante la rappresentazione di "Une Gaminerie", spettacolo di poesia interpretato da Frédéric Nantel e scritto da Serge Mathurin Thébault. Jean-Bernanrd era presente in quanto persona vicina all'associazione @rt-chignaned. Non ebbi pero' occasione di parlare con lui, in quanto era troppo preso dal fotografare la performance artistica di Nantel. Qualche mese dopo, fu il poeta Serge Mathurin Thebault ad invitarmi a raggiungerlo nella sua abitazione nel 10 arr. di Parigi.
Subito molto cordiale nei miei confronti, mi dimostrati altrettanto entusiasta per le opere in corso di esecuzione nel suo appartamento/atelier. Fui molto colpito dalla vivacità e autenticità dei suoi scatti, e dall'incessante lavoro di montaggio e ritocco sulle fotografie, generalmente stampate su grandi formati (nella barra di scorrimento a destra è presente il link per vedere le opere).
Oltre alla serie limitata Résiduel, incentrata sulla tematica del riciclaggio et sulla composizione artistica ma aleatoria causata dai compattatori di rifiuti, fui molto attratto dalla serie intitolata Traces (tr. Tracce). Vi sono rappresentate per lo più le conseguenze di un passaggio, di un impatto, o ancora di un contatto tra oggetti o persone e alcune superfici. Tracce diventa quindi una serie di scatti che evocano la presenza immaginata o immaginaria di un qualcosa, e il risultato, il punto di contatto sulla superfice di questo qualcosa.
Grande fotografo di pesaggi e profili di persone, Jean-Bernard Souderes è capace di mostrare attraverso i suoi obiettivi l'umanità disincarnata di un attimo di poesia. Guardando le sue opere non si resta stupiti da cio' che viene mostrato, ma al contrario da cio' che non c'è e che avrebbe potuto esserci. Ammirare la fotografia di Jean-Bernanrd significa quindi abbandonare la volontà di comprendere l'immagine e cio' che vi è rappresentato, e lasciarsi andare al soffio virtuale di una realtà verisimile che traspare dagli effetti visivi dello scatto, come accade nella serie Petite Ceinture, contenuta nel portfolio n. 3.
Vincitore di vari concorsi in Francia, Souderes si è ugualmente misurato nella sua carriera con progetti di scenografia (tra i quali Une personne, sui testi di Clarice Lispector) e di scrittura (ne è un esempio il libro D'art et de papier, pubblicato per le edizioni Textuel a Parigi nel 2008).
Attualmente impegnato nel suo nuovo progetto di esposizione intitolato Résiduel, Jean-Bernard Souderes intende esporre i suoi scatti riguardo le tematiche del cibo e del riciclaggio nei più grandi mercati coperti parigini. Allo stesso tempo, stiamo collaborando al fine di realizzare insieme questo stesso progetto, arricchendolo probabilmente con un mapping artistico, nell'agglomerazione urbana di Lille e nei suoi importanti mercati coperti.
Di piccola statura, profilo scarno, Jean-Bernard è un uomo capace di lasciare il segno prima di tutto per la sua simpatia e cordialità.
La prima volta che l'ho incontrato fu durante la rappresentazione di "Une Gaminerie", spettacolo di poesia interpretato da Frédéric Nantel e scritto da Serge Mathurin Thébault. Jean-Bernanrd era presente in quanto persona vicina all'associazione @rt-chignaned. Non ebbi pero' occasione di parlare con lui, in quanto era troppo preso dal fotografare la performance artistica di Nantel. Qualche mese dopo, fu il poeta Serge Mathurin Thebault ad invitarmi a raggiungerlo nella sua abitazione nel 10 arr. di Parigi.
Subito molto cordiale nei miei confronti, mi dimostrati altrettanto entusiasta per le opere in corso di esecuzione nel suo appartamento/atelier. Fui molto colpito dalla vivacità e autenticità dei suoi scatti, e dall'incessante lavoro di montaggio e ritocco sulle fotografie, generalmente stampate su grandi formati (nella barra di scorrimento a destra è presente il link per vedere le opere).
Oltre alla serie limitata Résiduel, incentrata sulla tematica del riciclaggio et sulla composizione artistica ma aleatoria causata dai compattatori di rifiuti, fui molto attratto dalla serie intitolata Traces (tr. Tracce). Vi sono rappresentate per lo più le conseguenze di un passaggio, di un impatto, o ancora di un contatto tra oggetti o persone e alcune superfici. Tracce diventa quindi una serie di scatti che evocano la presenza immaginata o immaginaria di un qualcosa, e il risultato, il punto di contatto sulla superfice di questo qualcosa.
Grande fotografo di pesaggi e profili di persone, Jean-Bernard Souderes è capace di mostrare attraverso i suoi obiettivi l'umanità disincarnata di un attimo di poesia. Guardando le sue opere non si resta stupiti da cio' che viene mostrato, ma al contrario da cio' che non c'è e che avrebbe potuto esserci. Ammirare la fotografia di Jean-Bernanrd significa quindi abbandonare la volontà di comprendere l'immagine e cio' che vi è rappresentato, e lasciarsi andare al soffio virtuale di una realtà verisimile che traspare dagli effetti visivi dello scatto, come accade nella serie Petite Ceinture, contenuta nel portfolio n. 3.
Vincitore di vari concorsi in Francia, Souderes si è ugualmente misurato nella sua carriera con progetti di scenografia (tra i quali Une personne, sui testi di Clarice Lispector) e di scrittura (ne è un esempio il libro D'art et de papier, pubblicato per le edizioni Textuel a Parigi nel 2008).
Attualmente impegnato nel suo nuovo progetto di esposizione intitolato Résiduel, Jean-Bernard Souderes intende esporre i suoi scatti riguardo le tematiche del cibo e del riciclaggio nei più grandi mercati coperti parigini. Allo stesso tempo, stiamo collaborando al fine di realizzare insieme questo stesso progetto, arricchendolo probabilmente con un mapping artistico, nell'agglomerazione urbana di Lille e nei suoi importanti mercati coperti.
28/10/13
GRAVITY ? SPACE FAKE ?
Molti mesi di inattività totale sul blog, ed eccomi di ritorno.. coerente come une paradosso, soprattutto stando all'ultimo post pubblicato.
In realtà les Grenouilles sono al lavoro, ognuno di noi impegnato a creare il proprio poetico universo, tra le maglie tristi della prosa quotidiana.
Per riprendere dolcemente gli scritti sul blog, vorrei discutere un po' del film tormento che mi ha riportato (un po' forzatamente) al cinema dopo quasi un anno di assenza. GRAVITY.. nuovo colosso americano firmato Alfonso Cuaron, con Geaorge Clooney et Sandra Bullock.
Perché scrivere un recensione su Gravity ? Bella domanda, non lo so in effetti.. ho bisogno di fare outing.
Premessa : il film va visto in 3D. Gli effetti speciali sono effettivamente eccezionali : la scena dove i detriti si dirigono verso lo spettatore è a dir poco entusiasmante, mai visto niente di simile fino ad ora. L'assenza di gravità è evidentemente il tema grafico centrale del film.. dopo un po' di tempo sembra quasi di fluttuare dentro al cinema, davvero una sensazione sorprendente. In breve, gli effetti della 3D sono il film, il film è la 3D.
Se poi vogliamo parlare di cinema, allora la cosa cambia abbastanza radicalmente. Il copione del film risulta una sorta di trito mélange tra Armageddon et Space CowBoys, insomma un'americanata travestita con qualche bel montaggio e qualche fotografia d'autore (vedi la sequenza nella quale Sandra Bullock si trova in posizione fetale). Per il resto, scenario banale e piuttosto mediocre, classico dei classici di un film che tira a vendere più che a restare nella storia per i suoi contenuti. Una nota a parte la merita George Clooney (quando sono andato a vedere il film non sapevo della sua presenza sul set). Che dire del buon vecchio Clooney ? Sarebbe meglio non dire niente in effetti. Prestazione alla Clooney... quello della pubblicità del Martini : "Posso entrare" ? "No martini no party!". Davvero mediocre il nostro Clooney, anche se c'è da dire che il testo non lo aiuta, data la scontatezza delle battute e dei dialoghi. Potremmo ricavarne una nuova ricetta per gli amici : il piatto Clooney. Aggiungere un po' d'ironia e falsa simpatia, condire con una dose massiccia di pathos alla Casablanca, qualche asteroide con maionese et un bel contorno di luoghi comuni e culi sodi. Per quanto riguarda Sandra Bullock, il film è completamente strutturato sul suo personaggio. L'interpretazione è buona, ma il copione, lo ripeto, non presenta grandi difficoltà.. insomma, un gioco da ragazzi per una vedette del cinema americano come la Bullock, abituata a ruoli ben più esigenti dal punto di vista della tecnica recitativa.
Per concludere il nostro articoletto sul colossal Gravity.. ammetto che avrei forse fatto meglio a restare a casa.. e ancor di più ad evitare di scrivere questo post..ma dovevo pur spezzare il digiuno dalle sale cinematografiche.. e dal blog. Effetti straordinari e copione da classico dello Star System : ben presto mi dimentichero del film ma continuero ad animare il blog.
Prossima tappa ? Presentazione del progetto artistico di un caro amico Grenouille : la mostra fotografica di Jean-Bernard Souderes.
In realtà les Grenouilles sono al lavoro, ognuno di noi impegnato a creare il proprio poetico universo, tra le maglie tristi della prosa quotidiana.
Per riprendere dolcemente gli scritti sul blog, vorrei discutere un po' del film tormento che mi ha riportato (un po' forzatamente) al cinema dopo quasi un anno di assenza. GRAVITY.. nuovo colosso americano firmato Alfonso Cuaron, con Geaorge Clooney et Sandra Bullock.
Perché scrivere un recensione su Gravity ? Bella domanda, non lo so in effetti.. ho bisogno di fare outing.
Premessa : il film va visto in 3D. Gli effetti speciali sono effettivamente eccezionali : la scena dove i detriti si dirigono verso lo spettatore è a dir poco entusiasmante, mai visto niente di simile fino ad ora. L'assenza di gravità è evidentemente il tema grafico centrale del film.. dopo un po' di tempo sembra quasi di fluttuare dentro al cinema, davvero una sensazione sorprendente. In breve, gli effetti della 3D sono il film, il film è la 3D.
Se poi vogliamo parlare di cinema, allora la cosa cambia abbastanza radicalmente. Il copione del film risulta una sorta di trito mélange tra Armageddon et Space CowBoys, insomma un'americanata travestita con qualche bel montaggio e qualche fotografia d'autore (vedi la sequenza nella quale Sandra Bullock si trova in posizione fetale). Per il resto, scenario banale e piuttosto mediocre, classico dei classici di un film che tira a vendere più che a restare nella storia per i suoi contenuti. Una nota a parte la merita George Clooney (quando sono andato a vedere il film non sapevo della sua presenza sul set). Che dire del buon vecchio Clooney ? Sarebbe meglio non dire niente in effetti. Prestazione alla Clooney... quello della pubblicità del Martini : "Posso entrare" ? "No martini no party!". Davvero mediocre il nostro Clooney, anche se c'è da dire che il testo non lo aiuta, data la scontatezza delle battute e dei dialoghi. Potremmo ricavarne una nuova ricetta per gli amici : il piatto Clooney. Aggiungere un po' d'ironia e falsa simpatia, condire con una dose massiccia di pathos alla Casablanca, qualche asteroide con maionese et un bel contorno di luoghi comuni e culi sodi. Per quanto riguarda Sandra Bullock, il film è completamente strutturato sul suo personaggio. L'interpretazione è buona, ma il copione, lo ripeto, non presenta grandi difficoltà.. insomma, un gioco da ragazzi per una vedette del cinema americano come la Bullock, abituata a ruoli ben più esigenti dal punto di vista della tecnica recitativa.
Per concludere il nostro articoletto sul colossal Gravity.. ammetto che avrei forse fatto meglio a restare a casa.. e ancor di più ad evitare di scrivere questo post..ma dovevo pur spezzare il digiuno dalle sale cinematografiche.. e dal blog. Effetti straordinari e copione da classico dello Star System : ben presto mi dimentichero del film ma continuero ad animare il blog.
Prossima tappa ? Presentazione del progetto artistico di un caro amico Grenouille : la mostra fotografica di Jean-Bernard Souderes.
20/01/13
CONOSCETE LO SPIRITO "GRENOUILLE" ?
"Amare, altrimenti è falso."
Basterebbe questo semplice verso di Robert Fred per far capire a un qualunque lettore l'universo che unisce le "rane" et lo spirito dell'associazione @rt-chignaned ("l'arte delle rane", traducendo dal bretone).
Nata nel 2003, @rt-chignaned si situa in una continuità artistica ben precisa. Bisogna risalire fino al 1981 per ritrovare i germi dell'associazione, ad un'epoca in cui alcuni alreani (gli abitanti di Auray, una piccola città che si trova in Bretagna) decidono di dare vita al gruppo "Mots-bulles" ("Parole-bolle") al fine di condividere discussioni sulla poesia. Poeti come Jean Tardieu, Obaldia o Petit si esibiscono in spettacoli di poesia nei piccoli cabaret bretoni, mischiando gravità e umorismo. Il 10 dicembre 1981, il giornalista Maurice Simon saluta la nascita di questo gruppo in un articolo intitolato "I poeti escono dalla loro torre d'ivorio". Simbolicamente, l'indomani, il poeta e amico Xavier Grall si toglie la vita in un vicino ospedale.
Nel 1982 alcuni esponenti del gruppo "Mots-bulles" danno vita all'associazione Art Mène : Serge Mathurin Thébault può così creare la rivista "Art Mène" e iniziare la pubblicazione delle proprie poesie. La prima raccolta, Le pain discret (tr. Il pane discreto), uscirà nel 1984. Questa rivista generalista, dopo cinque anni dalla sua creazione, comincia a proporre alcune edizioni tematiche di alta qualità : "Huart", "Guillevic", "Hélias", "La femme" ecc... L'avventura durerà 2 stagioni.
Tre anni dopo la scomparsa di Art Mène, una nuova squadra di artisti di vario genere prende la decisione di creare un nuovo gruppo, "La forêt d'encre" (tr. "La foresta d'inchiostro"). La forêt d'encre si propone di sperimentare l'arte al fine di creare un tessuto di legami sociali, grazie alla nascita di alcuni ateliers sulla scrittura, di serate di poesia in discoteca e di un concorso di scrittura basato sul tema "Parlatemi d'amore".
Dopo alcuni anni il gruppo perde la spinta iniziale e finisce per disperdersi. Così, nel 2003, nasce infine l'associazione @rt-chignaned che fin dai suoi inizi non ha smesso di proporre serate poetiche, libri di poesia di grande valore e avvenimenti di vario genere sulla poesia o altre manifestazioni artistiche dello spirito ("La cucina dei poeti", "Guillevic in poesia" ecc.). @rt-chignaned possiede anche una piccola casa editrice che porta lo stesso nome dell'associazione.
Conoscete adesso lo "spirito grenouille" ?
Forse, ma non abbastanza. Cosa significa essere "rane" ?
Le rane condividono tra di loro la volontà (necessità) di vivere in poesia. Constantemente alla ricerca del sacro, del meraviglioso e dell'amore, le rane vivono e diffondono l'umanità in ogni sua sfumatura e bellezza. Poeti, pittori, scultori, cuochi... poco importa, le rane vivono sotto lo stesso tetto e mangiano il pane dell'amiciza e dell'amore proseguendo l'esperienza collettiva secondo l'arte dell'incontro.
Il sottoscritto Luca Pallanti, Serge Mathurin Thébault, Nicola Colpo e altre rane si propongono oggi di rianimare le attività di @rt-chignaned dando nuova linfa allo spirito poetico presente in ognuna di loro.
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